testimonianze

Hanno scritto di Sandro Luporini i più importanti critici italiani:

Roberto Barbolini
, Giorgio Bassani, Giuseppe Cordoni, Mauro Corradini,
 Everardo Dalla Noce, Philippe Daverio, Raffaele De Grada, 
Mario De Micheli, 
Enzo Fabiani,
 Vittorio Fagone, Franco Fontana,
 Dino Formaggio, 
Michele Fuoco,
 Giampiero Giani, Paolo Levi, Fausto Lorenzi, 
Giorgio Mascherpa, 
Alberto Martini, Giuliano Menato, 
Nicola Micieli,
 Tommaso Paloscia, Marilena Pasquali, 
Elena Pontiggia,
 Eugenio Riccòmini, Elvira Cassa Salvi,
 Pier Carlo Santini
, Antonella Serafini,
 Giorgio Seveso,
 Vittorio Sgarbi, 
Giorgio Soavi,
 Franco Solmi,
 Claudio Spadoni, Roberto Tassi, 
Ferruccio Veronesi

Alcuni estratti:

Sandro Luporini tra Gaber e la pittura. Il Signor L alter ego “fuori stagione” del Signor G
È stato il Signor L, l’alter ego del Signor G. Ma è anche un pittore importante sul tragitto Viareggio-Milano, andata e ritorno. Sandro Luporini (Viareggio, 1930) è conosciuto come paroliere e sodale dell’esperienza teatrale di Giorgio Gaber. Ha accompagnato tutta l’avventura del Teatro-canzone, dall’ironia bonaria all’aspro sarcasmo e smarrimento, fino alla lucida anatomia d’una sconfitta («La mia generazione ha perso»). E il “Grigio” incarnato da Gaber è stato anche l’abitante della sua pittura, nel trasloco dalla vita quotidiana alla solitudine irretita da un’assurda impotenza, da un’ambigua condanna esistenziale, senza che mai una sentenza sia stata pronunciata. La sua pittura, dal realismo esistenziale alla metafìsica del quotidiano, è la vicenda d’un pittore che muove da una Versilia rarefatta e si scontra a Roma e Milano con la crudezza della vita urbana, con gli aspetti – come dissero nel 1956 nel manifesto dei realisti esistenziali Giuseppe Guerreschi, Mino Ceretti e Bepi Romagnoni presentando i propri lavori al Cavallino di Venezia «umiliati o drammatici dell’esistenza che ci commuovono o ci urtano», aderendo a quella nuova consapevolezza aspra, amara e inquieta, anche lacerata, che reinventava il realismo sociale con un approccio irritato e umano, irridente e tragico, sarcastico e pietoso. Dipingeva su cementite, a dare il senso di rovistare e graffiare sul muro grezzo della vita. (…) E guardava alla letteratura e al cinema, tra nouveau roman di Butor, Duras e Robbe-Grillet ed école du regard cinematografica di Resnais, di Bergman, di Antonioni, Cioè agli autori della crisi, del procedere frammentario, del tempo interiore. Poi, negli Anni ’70, il ritorno in Versilia (dove si sarebbe incrociato con gli artisti della Metacosa, fra i quali il bresciano Giorgio Tonelli – di cui ci sono alcuni lavori in mostra – in una sottile, poetica alterità del quotidiano, e in certo spirito di consorteria di bastian contrari ), prima in un surrealismo grottesco e accorato, tra luna-park, pesci e gabbiani, poi in spiagge che raccontano il vuoto, l’inanità, gli intervalli della vita, in concentrata, introversa tensione. Le spiagge semideserte, le quinte d’ombrelloni chiusi, gli scorci dalla finestra, che accolgono la risacca della storia e della vita e l’illusione beffarda di chiaroveggenza evocano De Chirico e l’assurdo alla Magritte, la mistura di tensione metafisica e di cose visibili, di figure spaesate – nude o incappottate – custodi in riti banali eppur misteriosi di un ordine ironico e sibillino del vuoto, dell’attesa. La vita, per dirla alla Montale, vissuta al cinque per cento, in quella stagnazione delle marine in una luminosità sabbiosa, o nell’evocazione d’una vecchia foto ormai trascolorante come un fremito tenue, degradato, di un’antica numinosità panica, gli omini minuscoli come larve nell’accendersi e svanire dei colori, o i nudi allo specchio già fantasmi della visione. Una Versilia fuori stagione, ha detto Luporini, così come la vita pare sempre fuori stagione. Lavora su uno spazio ambiguo e slittante, di false apparenze e falsi percorsi, di aspettativa degli eventi, di sospetto di una contiguità con un altrove pronto a risucchiare ed a stravolgere la normalità quotidiana. La sua grande seduzione è proprio nello scarto di luoghi e persone – colti in spiaggia o in interni/esterni domestici -, dalle ragioni e definizioni rassicuranti della consuetudine. Esterni, soprattutto spiagge, in una luce soffocata, di gamma bassa nel grigio-cenerino che invischia e ottunde, e interni in patine altrettanto grigiastro-cilestrine, talora violacee. Come stanze postfreudiane dense di mai compiuti riti di passaggio: concentrano non i racconti, ma le partiture e le attese dell’esistenza. La luce è filmica, talora cagliata in una resistenza ostinata, finché i luoghi consueti, le presenze e gli oggetti delle frequentazioni quotidiane, si dissolvono in un presagio di addio, e nel senso costante della non appartenenza, nell’insinuarsi dello sguardo del «far finta di essere L», perenne intruso.
Fausto Lorenzi

[…] un solo, vasto bastimento: sfila asintotico sulla linea dell’orizzonte, mentre figurine incappottate sostano ermetiche sulla spiaggia.
E’ come se il transatlantico Rex dell ‘Amarcord felliniano transitasse in una marina di Turner.
Perché la chiave della pittura di Luporini, nel fissare questo mondo balneare fuori stagione, non è mai la nostalgia. L’artista è sì un testimone, ma dell’immaginario.
Sia che spii la vita da una finestra, come il cugino d’un racconto di Hoffmann, sia che accompagni muto i suoi passeggiatori solitari, Luporini possiede l’atteggiamento a ciglio asciutto dell’entomologo. Lo chiariscono in modo inequivocabile i dipinti più recenti, con quegli ingrandimenti lenticolari di certi particolari, il gusto del dettaglio rivelatore.
C’è uno sguardo che le cose ci rimandano. Dalla sua “finestra sull’arenile” Luporini ne coglie intatto il mistero, saggiandolo con la pietra di paragone di uno stile essenziale, che bracca l’arcano del vivere anche nelle sue epifanie più umili e sommesse.
Roberto Barbolini

[…] Il raccontare di Luporini è un evocare, la sua pittura di situazioni, occasioni, e di memoria, porta in primo piano le tensioni di una stagione in cui autobiografia e mondo esterno sembrano congiungersi; i dati personali, individuali, e quelli collettivi, corali, di una società che viene crescendo attraverso l’industrializzazione di gran parte del paese ed emancipandosi (più lentamente) dall’ideologia sembrano trovare, e nei casi più felici trovano, un fermo punto di contatto e di coagulo. Le periferie urbane di quella lontana stagione sono a un tempo metafora sociale ed esperienza individuale, racconto emotivo di una realtà osservata e frammento poetico di vita vissuta.
In questa dimensione, tutta l’esperienza neofigurativa andrebbe riletta alla luce di un percorso che dalla presa di contatto con la realtà scivola lentamente verso un recupero della memoria, una sorta di evoluzione dalla sfera del quotidiano, della cronaca, alla sfera della storia, cui la distanza conferisce una luce mitica.
Mauro Corradini

[…] Scrivendo oggi di Luporini, a tanta distanza dagli anni del “realismo esistenziale”, dobbiamo innanzitutto riconoscere che il pittore viareggino, come Ferroni, ha superato quella poetica prendendo la strada in salita della pittura come tale, non elusa da sommari pittoricismi come sono
quelli che hanno moltiplicato le prime intuizioni “informali” ne tanto meno tradita da scappatoie “concettuali” che hanno tentato di distruggere la sovrana pittura. Col metodo degli antichi e moderni “metafisici” Luporini dipinge oggetti meccanici e spazi fermi e assoluti, finestre aperte su mari glaciali punteggiati da vele solitarie di nordica malinconia.
Quando su queste spiagge compare la figura umana, essa, perduta la dimensione del quotidiano, si isola come un’icona immersa in una luce lattea che certo non corrisponde a quella della sua Versilia. Quando il mare si increspa come nelle vecchie fotografie, il pittore suggerisce il distacco di una scena opacata dal tempo perduto, quando la spiaggia dovrebbe animarsi per i piccoli uomini che la percorrono, un cane, un cane solo rientra nella dimensione dell’umano quasi che il pittore voglia identificarvisi. L’uomo e il cane sulla spiaggia sordamente abbagliata da orizzonti lunari.
Raffaele De Grada

[…] Il modo di rappresentazione di Luporini tende a un’immagine bloccata, dove c’è una specie di trascendenza verso una situazione strana, dove il tempo si ferma.
Gli oggetti quotidiani e il paesaggio assumono in tal modo significati nuovi e profondi. Ne deriva un senso di solitudine non priva di speranza e in particolare una tendenza spirituale e metafisica, 
Di fronte al conflitto d’arte e di segni, quelli di Luporini vivono.
Vivono in grado di evocare e di emozionare la grigia solitudine dell’uomo contemporaneo.
Dino Formaggio

[…]Una pittura che non a caso è da tempo consacrata alle spiagge e, implicitamente, alla Viareggio del buen retiro dove Luporini è tornato a vivere da ormai trent’anni, estraneo a ogni mondanità, concentrato a dipingere la lunga sequenza delle sue rallentate, assorte tranches de vie e a scrivere, per il teatro cantato di Giorgio Gaber, testi in cui riemergono i suoi umori di uomo e di intellettuale immerso nella contemporaneità: speranze, disillusione, allarmi, rabbie, pulsioni, giudizi provocatoriamente lanciati ad aggredire e mettere in crisi le sicumere e le mistificazioni, il fragore e la vacuità di quanti nella politica, nella cultura, nella vita civile dicono illuminata la loro
navigazione a vista in una società che non può più contare su mappe ideali e coordinate celesti. Della deriva umana Luporini dipinge le scie, sotto specie di prosciugate spoglie delle cose e delle persone che stanno silenziose sulle spiagge, come sulla pista di un circo dopo lo spettacolo.
Nicola Micieli

[…] Nell’ampio movimento del realismo esistenziale, la pittura di Sandro Luporini si distingue, anche, per un’essenzialità della composizione, per una sintassi semplice e rigorosa che si individua fin dalle sue prime opere e condurrà poi ai vasti spazi luminosi dei lavori più recenti. […] La visione di Luporini non dimentica mai le ragioni strutturali dell’immagine. Per una vocazione al rigore e dell’essenzialità che non è solo estetica.
Elena Pontiggia

[…] Qui, con ogni evidenza, la pittura non intende scostare o eludere il significato autenticamente umano di ciò che ci circonda, e i giudizi da trame. Nei paesaggi sempre sorprendenti, negli interni ingannevoli, nelle figure emblematiche, le sue tematiche percorrono le derive di uno spiazzamento dell’immaginario in cui qualcosa sempre interviene […] a riportare l’operazione al centro del mondo reale. Qualcosa – un “peso”,una concretezza di fondo dell’immagine – che ci viene a dire […] che ci troviamo dinanzi al lavoro di scavo di un vero poeta: lavoro che per la sua stessa sostanza lirica ci appare tanto più universalmente prezioso e suggestivo quanto più ambiguamente soggettivo, più intimo, più personale.
Giorgio Seveso

[…] Ecco la metrica misteriosa con cui Sandro Luporini scandisce, allora, lo spazio-tempo (reale o immaginato, ricordato o sognato) di questa solitudine dipinta in ogni sua “Stanza sul mare”. Ora qui perfettamente spartiti e bilanciati ognuno a metà della visione, il fuori e il dentro, la finestra e lo specchio, il mondo e l’anima, figura di donna che lo sguardo carezza o che non vede, in sintonia si dispongono, si compensano strutturando ciò che emerge e ciò che affonda in una loro necessaria complementarità. Nondimeno che se ci si trovasse di fronte ad un’astratta partitura di Mondrian.
[“Metafisica del quotidiano”, Teatro Verdi, Pisa, 2005]
Giuseppe Cordoni

[…] Già nelle tele del 1963-1964 come nelle opere recenti troviamo spiagge minacciate e vuote d’uomini, mentre la scacchiera cartesiana ed il flessuoso corpo femminile che abitano gli interni mentali del 2000-2001 sono riprese consapevoli, anzi meglio: varianti mature, ancor più meditate, dei dipinti degli anni Sessanta e Settanta. Le opere delle ultime stagioni si collocano sul crinale sottile che separa l’ironia dal sogno (ancora una soglia…) ed appaiono calate in quella dimensione assorta che appartiene a certe visioni sospese di Magritte, palcoscenici di un teatro-finestra, scacchiera o spiaggia, non importa, su cui si muovono rare presenze, fanciulle soavemente crudeli alla Balthus, angeli confusi, uomini e donne sempre più soli che attendono soltanto di essere presi da nuovo incantamento.
[“Metafisica del quotidiano”, Teatro Verdi, Pisa, 2005]
Marilena Pasquali

[…] Ed è, questo, un caso ben strano: perché Luporini, tornato ormai definitivamente a Viareg-gio, s’è come ritratto da ogni disquisire, da ogni nuova trovata, da ogni proposta di successo, da ogni possibile e facile clamore. Gli basta ciò che ha davanti agli occhi, e ciò che continua a vedere anche ad occhi chiusi. Gli occhi, anzi, meglio chiuderli. Tanto, sa già com’è il colore del mare, del cielo, della sabbia fuori stagione. E sa anche che non c’è alcun bisogno di far copia dal vero. Basta tenere, col vero, un tenue rapporto di verosimiglianza: per non recidere il legame con l’esperienza visiva di chi guarda i suoi quadri; per non sfidarlo a dimostrarsi aggiornato, come chiunque suppone di essere, per obbligo sociale (e magari mentendo). In fondo, anche De Chirico, e Morandi, e Magritte quel legame non l’hanno mai reciso.
[“Metafisica del quotidiano”, Teatro Verdi, Pisa, 2005]
Eugenio Riccòmini

[…] Mai fu più azzeccata la distinzione che Ernst Junger pose fra anarchico e anarca, dando a quest’ultimo la dimensione epica di chi sfida gli dèi della sorte. Ho incontrato Sandro Luporini mentre stava preparando per il teatro un testo di Céline, del quale nutre lo stesso distacco dalla realtà materiale, lo stesso spirito di sfida. Il suo itinerario è assolutamente duplice, genialmente ambiguo fra letteratura e pittura.
Spetta a noi scoprire il punto di congiunzione delle due parallele, che sta forse posto all’infinito, nell’accertamento vago d’un punto terminale e fatale dove il caos si dissolve nella metarealtà. È lì che la spiaggia lascia intravedere i fenomeni terribili d’una dimensione onirica, quella che pare essere il rifugio precario da un mondo che ha perso ogni senso di logica. E tutto, sempre, con un’ironia che pare essere la salvezza della mente, l’antidoto alla disperazione. Luporini pratica questa sua magia con affetto, anzi con dedizione, per la qualità del segno, sia quello della pittura che quello della lingua.
Proprio come nei testi che ha, per anni, elaborato per e assieme a Giorgio Gaber.
[Sandro Luporini, in “Fenomenologia della Metacosa. 7 artisti nel 1979 a Milano e 25 anni dopo”, Spazio Oberdan, Milano, 2004]
Pilippe Daverio

[…] Tutto è attesa, tutto pare prepararsi ad eventi incontrollabili. Le marine, una volta luoghi di eccitazioni, di gioia, di entusiasmi giovanili, non sono più in grado di procurare piacere. Non bastano le cose familiari (il mare, la spiaggia, gli ombrelloni, i gabbiani, qualche incontro d’amore) a far recuperare all’artista la “beatitudine” contemplativa di quei luoghi. Quelle cose care, quasi in uno stato di abbandono, fanno ora sentire la solitudine e il gelo della vita, la caducità dell’esistenza. Le stesse figure, di garbo e di fantasia, che animano la spiaggia durante la notte di carnevale, si offrono come possibili maschere della vita, della molteplicità del nostro apparire, travestimento delle nostre gioie, ma anche delle nostre ansie, dei nostri affanni. Gli innamorati, stretti in un abbraccio in riva al mare, vivono nell’abbandono di un felice momento di tenera atmosfera d’idillio, nel vagheggiamento di un amore puro, non scevro però di trepidazioni e di inquietudini. I nudi femminili, appena intravisti nella loro sensuale malizia, si abbandonano ad una strana indifferenza, nella coscienza della dimensione leggera dell’esistere, delle angustie di un mondo ristretto in cui sono destinati a vivere. Questa pittura pare conoscere l’angoscia nella letizia, l’afflizione nell’allegria, la rilevanza di pensiero anche nella banalità dell’agire dell’uomo. Tutto acquista senso nell’opera di Luporini: gli ombrelloni chiusi si aggiungono naturalmente come portato strutturale del paesaggio marino, non perdendo nulla della loro dotazione di ricordi, ma anche di simboli della fine della dolce stagione della vita, di relitti di un mondo svuotato; la nave o il veliero rimanda al senso dell’avventura, ad un possibile arricchimento di coscienza e alla considerazione della conoscenza esperita in forma di viaggio; la scacchiera è emblema del gioco, ma anche dell’azzardo, del rischio, dell’illusione e della disillusione, della vittoria e della sconfitta; il gabbiano è destinato ad esplorare uno spazio avventuroso, racchiudendo in sé la brama di libertà, il segreto di una diversa ed assurda esistenza.
[“Sandro Luporini. Dagli esordi alla neometafisica”, Università Bocconi, Milano, 2004]
Michele Fuoco

[…] Luporini è il più “puro”: ricorda remotamente Sironi, da un lato, e dall’altro De Stael: ma le sue garze, i suoi spettri, i suoi ectoplasmi, pur se resi in pittura della migliore qualità, ne fanno un narratore ingegnoso e nuovissimo, di grande effetto.
(…) Questi cinque pittori (Banchieri, Ferroni, Giannini, Luporini e Sughi), (…) forse non stanno assieme, oggi, che per virtù di qualche negazione. Ma questo basta, intanto, perché il loro colloquio risulti appunto un colloquio, e non un litigio, un urto di contrapposte incomunicabilità.
Tutti insieme si ritrovano a dir di no alla pittura del Novecento italiano fra le due guerre: al suo lirismo, alla sua purezza, alla sua esemplarità emblematica: puntando per converso sul contenuto, sui valori ieri così spregiati del “racconto”, della “illustrazione”. È dunque una pittura sociale, la loro? Anche. E comunque una pittura che chiede la diretta partecipazione emotiva e psicologica dell’astante, e non, come quelle di Morandi, Carrà e Rosai, la pura delibazione estetica: necessariamente un po’ teatrale, perciò, nella ricerca degli effetti illusivi, dei trucchi, delle apparizioni, dei colpi di scena. Ma ecco, tuttavia, dopo aver detto di no, e abbastanza ruvidamente, alla sensibilità e al gusto dei quadri, ecco ristabilirsi con essi un qualche rapporto: non fosse altro che per l’impegno, comune, di continuare a produrre della pittura che dopo tutto sia ancora pittura, dei quadri che dopo tutto siano ancora dei quadri.
Detto questo, resta da dire delle singole personalità dei cinque: personalità che accomunate da un atteggiamento di dissenso, sia pure, ma insieme di sostanziale rispetto per la tradizione (un atteggiamento in cui è implicita l’opposizione, fors’anche più dura, all’astrattismo e all’informalismo), hanno modo di risaltare, in questa mostra, con tutto il necessario rilievo individuale. Dietro le spiagge e i giardini di Banchieri, io sento il ricordo del Carrà viareggino, da una parte, e del Ben Shan più americano, dall’altra: ma la gentile, delicata invenzione di ognuna di queste favole, realizzata in bianchi, in grigi, in rosa, in azzurri di assoluta limpidezza, è ben sua, appartiene soltanto a lui.
Ferroni è assai più composito (ma anche con la disinvoltura neosperimentale il gruppo intende differenziarsi dalla purezza linguistica della pittura anteguerra). Nelle sue tempere cupe, lontani echi di Chagall, di Kokoschka, persino di Klimt, e, più vicini, echi di Dubuffet, Giacometti e Bacon, vengono travolti da un temperamento in fondo allegro, vorace, da fool elisabettiano. Giannini è il più giovane, credo, e potrebbe sembrare anche il meno espresso, a tutt’oggi. E tuttavia quanta finezza, quanta consapevolezza intellettuale nel suo tentativo di riproporre, in chiave di realismo moderno, l’antico dibattito secentesco tra luce divorante e colore naturale! Luporini è il più “puro”: ricorda remotamente Sironi, da un lato, e dall’altro De Stael: ma le sue garze, i suoi spettri, i suoi ectoplasmi, pur se resi in pittura della migliore qualità, ne fanno un narratore ingegnoso e nuovissimo, di grande effetto. E Sughi, infine: venuto su alla pittura a Roma, tra Vespignani e Muccini, e cresciuto poi in Romagna, nella natia Cesena. Anch’egli, come gli altri, si è opposto fin dal principio della sua attività alle sublimi poetiche novecentesche: e lo ricordiamo, dieci anni fa, immerso fino al collo nella cronaca nera del neorealismo postbellico. Più tardi ha sentito evidentemente il bisogno di decantare i propri contenuti, di fare bello e grande anche lui. Ed eccolo, infatti, in questi suoi ultimi quadri, risalito alle fonti più vere del proprio realismo: a Degas, a Lautrec: classicamente maturo, ormai, per accogliere e far sua perfino la lezione di Bacon, tenebroso stregone nordico…
[Dal catalogo della mostra, Galleria Gian Ferrari, Milano, 1963]
Giorgio Bassani

[…] Ecco: il paesaggio della grande periferia industriale: cavalcavia, sottopassaggi, ponti di ferro, gazometri, tralicci, cavi d’alta tensione; e, più avanti, la pianura lombarda: nebbiosa, invernale, con bagliori d’acqua, con le erbe biancastre e spettrali, strinate dal gelo; oppure una vetrina: il cristallo nitido, freddo, riverberato dalle fosforescenze del neon, e, sul piano, la carne macellata, coi rossi opachi, le venature viola, i margini di grasso.
È questa la tematica di Luporini. A prima vista, seguendo i termini dell’enunciazione, le coincidenze con la scelta oggettiva di altri giovani pittori appaiono evidenti, ma, davanti ai quadri, ci si accorge che tali coincidenze si fermano soltanto alla “nomenclatura”, mentre la sostanza del discorso si svolge in una dimensione poetica autonoma.
Una pittura di suggestioni, di stupefatte atmosfere, di penetranti silenzi: quindi una pittura di tonalità grigie, diffuse, profonde. Ma, all’interno di questa visione, smargina, concreto e tagliente, il profilo metallico, la sagoma del grattacielo, una presenza che esce improvvisa dallo stato di fantomaticità: e tutto il quadro si raccoglie nell’intensità di questa apparizione, in essa si concentra e vive.
(…) Una pittura perciò che cerca un incontro con l’uomo, anche con le zone segrete dell’uomo: una pittura non facile, di cui Luporini conosce tutti i rischi. Ma sono rischi che vale la pena di correre. Sono i soli rischi che contano. Diciamo anzi che tali rischi non sono evitabili per un artista moderno: nel momento stesso in cui cerca di evitarli, si pone fuori di quella dialettica che costituisce, nel nostro tempo, l’unica linea di energia. La sola maniera di superare questi rischi è quella di viverli sino in fondo, con coraggio e dedizione assoluta.
Luporini, nella sua pittura, li accetta. Egli ha incominciato a ricostituire, nell’immagine, il tessuto della realtà lacerato da mille negazioni e sperimentalismi. Non gesticola, non alza la voce. C’è in lui uno spirito di ricerca attento e vigile, ma anche discreto, quotidiano. Le sue illuminazioni non sono fatte di violenza aleatoria, ma tendono a diventare costanti, a diventare cioè condizione normale dell’uomo.
È da questo punto di vista, nell’ambito di questa prospettiva, che la pittura di Luporini si definisce, è in questa verità ricercata che incide la sua parola.
[Dal catalogo della mostra, Galleria Bergamini, Milano, 1961]
Mario De Micheli

[…] Ebbene: anche Luporini, è evidente, è pittore che “ci vede bene”; mentre è chiaro che non soltanto le sue figure “parlano”, ma anche le sue spiagge, i suoi mari, i suoi cieli, i suoi animali (cani sulla rena), le sue finestre aperte e via a seguire “parlano”, o direi meglio “meditano”: senza tuttavia arrivare a essere intrise, cose e creature, di quella tristezza, o solitudine, alienazione, melensaggine di spirito e quant’altro sulle quali, a parer mio, alcuni critici hanno troppo insistito.
Penso invece che Luporini dica, dimostri pittoricamente, da autentico toscano qual è, la verità della realtà e viceversa, e quindi non inventando niente e nel contempo tutto. Non voglio farmi prendere da vampate di toscanità: ma dire semplicemente che i paesaggi, i cieli, le figure eccetera di Sandro Luporini “esistono”, e tanti saluti; e non hanno affatto bisogno di interpretazioni gozzaniane o comunque letterarie, di ricami filosofeggianti o ideologici.
Certo, per una pittura come quella di Luporini la responsabilità è grande: si cammina sul filo, e “sbagliare piede” è facile (come dimostrano diversi dei suoi colleghi di “Metacosa”, che son finiti nel fotografare il niente, nel disanimare la realtà, nel raffigurare il mondo come un convento di monache di tiepida vocazione).
Tuttavia, la seconda parte dell’iter luporiniano cui abbiamo accennato non sarebbe stata possibile senza la prima: che è quella dell’esperienza vissuta nella selva, se non proprio oscura, certo alquanto confusa del cosiddetto Realismo esistenziale: che fu, se non un Movimento, certo un Avvenimento nella vita culturale milanese, e non soltanto. (…) Come si capisce bene dalla dichiarazione che si affrettarono a fare Ceretti, Guerreschi e Romagnoni in occasione della mostra tenuta nella Galleria del Cavallino di Venezia nel maggio 1956 (che seguiva ad altre tenute a Milano alla San Fedele e alla Bergamini), e in cui si leggeva: “A Milano, da varie parti, si avverte il costituirsi di un orientamento figurativo che opera tenendo un riferimento stretto con gli avvenimenti della vita d’oggi. Questo indirizzo comune, di una partecipazione cosciente a ciò che avviene intorno, si manifesta nel sottolineare gli aspetti umilianti o drammatici dell’esistenza che ci commuovono o ci urtano. Vogliamo esprimere la nostra presenza attiva non come militanti di una ideologia, ma portando avanti la nostra qualità di uomini che non possono isolarsi in una vita autonoma. Questo atteggiamento dell’essere presenti con la nostra adesione umana oltre il fatto di cronaca, cercando le cause vere dei fatti, dà la misura delle possibilità di apertura verso tutte le direzioni”.
(…) Ora questi accenni (le dichiarazioni degli artisti, le urla di Vaglieri) riportano a una realtà culturale importante, vivace e complessa quale era appunto quella milanese che Sandro Luporini affrontò nel 1956, quando dette l’avvio, trasferendosi a Milano, a uno dei capitoli della sua “storia personale discontinua, e fors’anche travagliata in qualche momento, ma coerente nel seguito delle intenzionalità e delle mutazioni”, come scrisse Pier Carlo Santini, aggiungendo che “non fa meraviglia che proprio a Milano Luporini abbia identificato e circoscritto il suo cerchio d’interessi, respirando l’aria di via Brera e dintorni”: cerchio che ebbe il suo centro, innanzitutto, nella partecipazione agli eventi del Realismo esistenziale. Ed ecco così e perciò le sue mostre alla Galleria Bergamini, da solo o in compagnia di Ferroni, Banchieri, Guerreschi, Romagnoni, Ceretti, Vaglieri e vari altri: con i quali si trovò in perfetta sintonia, almeno nella forza quasi gridata dei colori (si pensi a Fonderia del 1958), nella sapienza costruttiva (Periferia dell’anno prima), e così via fino ad alcune mutazioni d’aspetto turneriano (Paesaggio del 1961) che forse preludono al periodo degli Interni, Spiagge e simili motivi: anche se non è da escludere la memoria di certi paesaggi di Maestri versiliani, quali ad esempio Angiolo Tommasi, Galileo Chini e Alberto Magri, che avevano già capito e amato la perfetta, e anzi meravigliosa, luce di quelle zone benedette da Dio. Nelle quali Luporini ritornò nel 1970, dotato direi di un occhio interiore diventato più acuto e poetico grazie proprio alle esperienze dense e stimolanti vissute a Milano, arricchendosi di una nuova capacità di “veder bene e di percepire il bisbigliare delle creature e delle cose” per dirla con Achille Funi. (A questo punto, però, mi viene un dubbio: e se il vero segreto di Sandro Luporini fosse nel credere con Baudelaire che: “La Natura è un tempio di pilastri viventi. Talvolta lasciano uscire confuse parole. L’uomo passa attraverso foreste di simboli che l’osservano con sguardi familiari”? Chi sa…).
[Dal catalogo della mostra, Dal realismo esistenziale alla neometafisica, Spazio Oberdan, Milano, 2001]
Enzo Fabiani

Martedì 6 marzo 2001 con altri amici sono stato a Viareggio per conoscere e fotografare Sandro Luporini. Era una giornata calda, tranquilla, un anticipo di primavera, piena di umane sorprese. Quando c’è stato l’incontro con Sandro, è stato come se ci fossimo sempre conosciuti ed una reciproca proiezione di simpatia ha immediatamente creato un contatto d’amicizia, di confidenza e di disponibilità.
Il suo studio-abitazione, pieno d’oggetti, quadri, souvenir, ha immediatamente stimolato la mia curiosità ad indagare in questo suo piccolo grande mondo, nel quale passa e vive il suo tempo a testimoniare attraverso le tele la sua creatività, la sua verità e la sua immaginazione, che sono le qualità che ognuno di noi porta nell’attività che sta svolgendo. E così, cercando di capire il suo modo di guardare il mondo, ho cominciato a fotografarlo senza pretendere da lui atteggiamenti o pose, ma in modo naturale e spontaneo. Poi, insieme agli altri amici, siamo andati a pranzo alla trattoria Numero 1, scelta da lui, dove era come essere a casa sua. Poi una bella e rilassante passeggiata sulla riva del mare, anche coi suoi due figli Giorgio e Valentina, e poi ancora fotografie; così questo bel “gioco” ci ha portato alla fine del giorno, lasciando dentro di me il desiderio di rivederlo ancora, come si fa con i vecchi amici, ricordando la semplicità del suo modo di vivere. Perché tutti possiamo forse essere capaci di grandi momenti, ma la vita in fondo è fatta di tanti ma tanti piccoli momenti e quel giorno è stato uno di quelli, ma da non dimenticare.
Ciao Sandro, ad maiora.
Franco
[Una giornata con Sandro Luporini. Dal catalogo della mostra, Dal realismo esistenziale alla neometafisica, Spazio Oberdan, Milano, 2001]
Franco Fontana

In un fatto della natura, nell’alternativa di motivi poetici senza precisi riferimenti ma portati ad uno stadio di sincera elementarità, Sandro Luporini ha diversamente impostato il flusso e la disciplina della sua arte. Sono rimasti gli accenni di una realtà che sconfina verso orizzonti liberi e sciolti, per riti nuovi e diversi. Questa sua “finestra sul mare” scopre dolcissimi arenili e sembra cercare un colore di suono staccato da qualunque consuetudine, in un chiarore, in una autonomia pittorica che si concreta, per apparizione ed evoluzione, in un sentimento di spazio e di tempo.
Il battito dell’ala di un gabbiano o quello più precipitoso di un destino che sembra premere sulla concezione drammatica di queste “marine”, percorre i contrasti dei toni caldi e freddi, riempie ogni centimetro del dipinto, annulla l’intrigo scenico, spezza l’abituale suo ritmo, ne sradica l’origine, per tentarne l’espressione poetica; è la sostenutezza e la qualità della formazione pittorica di Sandro Luporini.
Quale che sia la ragione (il pensiero dell’uomo, forse, o quel dubbio che fantasia talvolta suggerisce ed anima) a distogliere questo pittore da una comune tematica, i cui sinceri accenti si possono individuare ormai soltanto in talune digressioni, è certamente un fatto preciso che egli intende dar voce a un moto interno, a una spinta del soggetto inventivo. E l’attenzione verso una semplice realtà naturale ci consente il piacere di riconoscerla ricca di sfumature lievi, segnata di individualità, in un orizzonte ristretto alle cose care; un orizzonte conteso e di quando in quando smarrito, per spezzature e per tagli, nel segno e nella luce. Vi sarà pure, in queste raffigurazioni, un braccio di mare da voi veduto e vissuto, un ciuffo d’erba che ricordate conteso alla salsedine dal libeccio, un colore di sole che vi sia rimasto negli occhi; sì, vi può essere tutto, ma creato di nuovo, senza verità e senza riferimenti, e come fonte e stimolo di suggestione, di moti fantastici e incantati.
Ed è quanto a noi sembra particolarmente interessante.
[Dal catalogo della mostra, Galleria Bergamini, Milano, 1963]
Giampiero Giani

[…] Luporini, che è innanzitutto un pittore serio e crede nell’atto “specifico” della pittura, intesa come mezzo di comunicazione e di espressione legato a forme insostituibili, è sempre stato dalla parte dei resistenti, dalla parte del realismo.
La sua storia, infatti, è intimamente connessa al gruppo dei realisti milanesi che si trovavano, taluni anche per lavorarvi, nello studio Ferroni in corso Garibaldi – Vaglieri, Romagnoni, Guerreschi, Banchieri, Ceretti, Aricò, Cazzaniga – : i realisti che rifiutavano la prevaricazione di un’ideologia e la passiva accettazione di convenzionali schemi interpretativi della realtà per anteporre una dimensione più esistenziale della realtà, quale la conoscevano e la sentivano in un rapporto diretto, in un certo momento della loro vita di uomini, in una certa luce emozionale. Realismo esistenziale, lo chiamavano, proprio per mettere ben in chiaro come l’accento, nelle loro opere, cadesse sui dati dell’esperienza privata e personale, spesso intinta di disperazione e solitudine: il loro “impegno” era, ed è tuttora, la fedeltà alla propria condizione umana entro la fitta trama di sollecitazioni diverse a cui sono sottoposti ogni giorno.
(…) Pittore di situazioni, dunque, anche Luporini. E dei più sottili: specie per quella sua elaborazione del rapporto esteriore e interiore tra un “dentro” e un “fuori” che conduce tutto il suo più recente lavoro. Dentro e fuori le stanze delle case d’ognuno. Fuori, piazze che fuggono, immense e vuote, abitate da rari personaggi soli che le fanno più grandi, ogni personaggio chiuso in una solitudine incomunicante, l’uno indifferente all’altro, ago di una meridiana spaziale; fuori, schermi di ombre misteriose, bagliori di luci notturne, artificiali, inquietanti, che rischiarano lembi di paesaggi lontani, scale, parapetti, muri. Dentro, all’interno delle stanze, un mondo più intimo di immagini familiari, dalle fotografie incorniciate agli oggetti d’arredamento, sempre percorso da un fluttuare di forme ambigue pur nella loro lucidità e precisione. Di qua e di là c’è l’ignoto, ancora e sempre.
Situazioni quotidiane, quelle di Luporini, eppure oniriche talvolta, quando la composizione tripartita accentua la differenziazione dei tempi narrativi, oppure quando gli ori e gli argenti suscitano magici bagliori cangianti sullo sfondo dei quadri, oppure quando le immagini reali ci appaiono nella forma, sempre inquietante, dei negativi fotografici. Situazioni di un uomo che vive nella vita, senza prevenzioni né ideologie: aperto all’esperienza di una realtà che ogni volta si configura diversa nel divenire incessante del mondo, all’interno del suo mondo. Ricordi, desideri, incubi, cose, fatti, impressioni, notizie, racchiusi in un’immagine che è racconto.
[Dal catalogo della mostra, Galleria Botero, Torino, 1965]
Alberto Martini

Il “lettore” di questi dipinti si chiederà per certo il perché di tante spiagge con variazioni e che mai significhi questo “teatro” per un pittore tanto sensibile e poetico quant’è Luporini. Solitudine, malinconia, spazi infiniti (tra cielo, acque e spiagge) in cui la piccola, debole presenza umana assume connotati più esili ancora e in cui i drammi divengono flebili o addirittura atone voci in uno sterminato silenzio. E qui anche le “cose”, ombrelloni, apparizioni, navi, presenze umane, cani, vele, qualsiasi cosa insomma, assumono di fatto una metafisica, straniante connotazione e ben dice Santini (mostra di Carpi, 1987) che tanta struggente malinconia la si trova solo in Fellini, dai Vitelloni in poi; è un’idea che ho scritto anch’io, tanti anni fa e mi pare puntualissima per ammantare un presente di secoli, per velare lo spazio effimero della vita in una presenza che seguita nella catena degli anni, inarrestabile e misteriosa quanto ricca di fascino e di tenerezza. Diciamo, dunque, la spiaggia, tema, com’è noto, che in Luporini segue a ruota quello della finestra e che, tutto sommato, interpreta il medesimo significato di attesa, di evento che comunque avverrà e s’imporrà. Ecco dunque un arenile-spiaggia-teatro del tutto senza fiori e, parallelo ad esso, ecco il mare con il suo immenso bacino d’acque che gira oltre la curva dell’orizzonte: e in questo fluire di linee interminabili e di colori variabili con il mutare delle ore (o dello spazio-tempo o delle stagioni), ecco appunto gli imprevisti di cui sopra, un’azione, un gesto, un qualcosa che, quell’immobilità, rompe e spezza per pochi istanti prima di diventare anch’esso, quel gesto o quella presenza, una cadenza silenziosa ed extratemporale. (…) Pochi artisti, oggigiorno, presi dal “bisogno” di far nuovo, di farsi notare, hanno saputo, come Luporini, ripiegarsi così in se stessi e meditare sul “banale quotidiano” per trarne quelle lezioni di vita che spesso perfino l’evento memorabile è incapace di produrre. E poi anche, per ammonire, che nel flusso vitale non c’è evento, seppur minimo e apparentemente poco colorito, che in realtà non significhi moltissimo, e s’orni di sogni, di emozioni, di desideri, di riflessioni anche universali. E tutto questo, Luporini ha saputo ben dirlo con luce/colore/racconto, con quel che la sua elaboratissima pittura gli offre quando sboccia in fiori tanto incantevoli che intimi. Quanto lo son questi suoi ultimi quadri di spiaggia e di visione dove il banale e la nevrastenia quotidiana s’ammalano di tempo/spazio e divengono insieme poesia e filosofia e, insomma e soprattutto, vita.
[Dal catalogo della mostra, Adac, Bergamo, 1989]
Giorgio Mascherpa

[…] Nel ’70, dopo quindici anni di metropoli, Luporini ritorna a Viareggio e il suo mare è più grigio che mai. In certe immagini di creature in procinto d’affogare l’ondulare della malinconia tocca il limite più vicino alla disperazione; così come in certi interni che risalgono agli ultimi anni milanesi, quella malinconia s’avvicina invece al limite dell’intenerimento e della più dolce intimità. La stanza, la finestra dalle vecchie tendine di pizzo difendono, danno un senso di rifugio e di protezione, e la poltroncina Ottocento accarezza la memoria con struggente, penetrante dolcezza.
Anche questi interni – in parallelo con gli esterni – sono impregnati di un’atmosfera, di una sensibilità così segreta e toccante quale nessun altro ha saputo esprimere con tanta semplicità, con tanta nobile riservatezza, aliena da gesti o declamazioni.
Vien da chiedersi che navi siano quelle che compaiono di recente (1984) davanti alle fredde spiagge di Viareggio: vascelli pronti per un viaggio ricco di incantamenti o strumenti, preannunci minacciosi di una violenza che vorrebbe rendere impossibile, impraticabile persino la misura fragile, pura, altamente poetica di quella malinconia. E di chi sono quei bianchi ombrelli da paracadute che piovono dal cielo e sembrano sul punto di valicare e invadere lo stesso spazio intimo e privato della finestra di casa? Ma profonda e radicata com’è in quella pena originaria, in quella sofferente dignità e lucidità in cui consiste l’invincibile nobiltà e bellezza delle cose, la lirica malinconia di Luporini non può corrompersi, né per lusinghe né per minacce che fan parte da sempre del tessuto del vivere universale. Così anche dai quadri d’allarme, di cupo presagio, emana un messaggio di alta, di invitta fierezza umana, in una luce soffusa e impalpabile, intessuta di un senso di sospensione, di attesa misteriosa e, malgrado tutto, di dolcezza mesta e insopprimibile.
L’incanto penetrante della pittura di Luporini ci avvince e ci stringe ancora e sempre nel suo cerchio tenero e schivo.
[Dal catalogo della mostra, Adac, Palazzo Paolina, Viareggio, 1986]
Elvira Cassa Salvi

[…] Ma fra l’82 e l’83 – ed è questa la fase tuttora in corso – senza quasi modificare la propria ottica, Luporini avverte suscitazioni diverse, filtrando visioni e reperti giacenti al fondo della memoria. Ci sono ancora una spiaggia, una distesa di mare, poche onde leggere che s’arricciano vicino alla riva. E poi due poltrone a sdraio, un ombrellone chiuso, un traliccio, un pennone, una bagnante.
In termini diversi l’artista riprende il suo comporre semplificato, le sue scansioni pausate, i suoi spazi distesi. Ma vi sono ora palpiti e tremori che modificano il clima e la temperie sentimentale delle scene. L’aria diventa diafana, la luce perde la sua nettezza e si diffonde più morbida e come filtrata da foschie leggere. Poco prima o poco dopo potrebbe aversi lo scadimento nel banale (ma questo è vero, poniamo, anche per Courbet). È solo per dire che la “pittura” corre senza incertezze su un crinale stretto e difficile, ha sostanza, è ricca di vibrazioni. Vi sono risonanze ed echi che si avvertono anche dopo e oltre la visione diretta: impressioni ed emozioni durevoli. A ben guardare le Finestre sono piuttosto lontane, perché ora tutto s’anima d’un palpito sottile, e all’immobilità dell’oggetto distaccato dalle vicissitudini del tempo, succede la memoria di condizioni d’ora e di stagione, di momenti vissuti, di suggestioni fuggevoli ma intense. Così Luporini non descrive, non illustra, non rappresenta, ma evoca con poche parole e molte sospensioni uno stato d’animo.
Scavando più a fondo in se stesso con introspezione appassionata, egli rinnova assai radicalmente i significati poetici della sua pittura. Anche perché sui suoi arenili mirabilmente dipinti con la purezza di un antico, si muovono piccole figure sole, a gruppi, a coppie; e nel mare sostano navi e bastimenti alla fonda. Solo in alcune delle più semplici immagini felliniane, dai Vitelloni in poi, ho trovato una così struggente melanconia, un senso così vivo del tempo perduto, della quotidianità che si consuma nella tristezza e nella noia. Nasce, insomma, il racconto, affidato a piccoli gesti e atteggiamenti che ci toccano assai da vicino. Senza voler attribuire all’artista nessuna intenzione simbolica, è pur vero che i suoi piccoli personaggi giungono a identificare, proprio perché illeggibili sul piano psicologico, e lontani, una condizione che è un po’ di tutti. Non sono né marginali né pleonastici, ma incidono pungentemente sul tono delle immagini. Che non potrebbero attuarsi al di fuori di quella quintessenza pittorica pur così trepida e foltissima di tenere incrinature, non ragguagliabile ad alcuna delle modalità e convenzioni diffuse.
[Dal catalogo della mostra, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1985]
Pier Carlo Santini

[…] L’“altro” metafisico di Luporini è allora il processo con cui egli metabolizza la conoscenza della realtà, la emancipa dalle contingenze spazio-temporali e la carica di nuovi significati rispetto a quelli strettamente oggettivi, nell’aspirazione di ottenere una conoscenza più approfondita di essa. Del resto nessuno di noi si accontenta dell’oggettività delle cose, dell’insopportabile aridità della materia. Noi tutti, cioè, produciamo un nostro “altro” con cui conviviamo, ora secondo modalità comuni, ora in un modo più personale, proporzionalmente a quanto personali risultano le nostre stesse esistenze; in questo l’arte dell’“altro” diventa universale, soggettività accomunabile a quella di tanti altri soggetti, linguaggio capace di parlare a tutti.
L’“altro” pittorico di Luporini ha però un pregio indiscutibile rispetto all’“altro” dei comuni mortali: quello di mostrarsi esattamente per ciò che è, senza altri possibili equivoci. Luporini ci fa capire benissimo quello che aveva già intuito De Chirico: l’immagine dell’“altro” non si guarda, si rivela. Non sono gli occhi a determinare l’“altro”, è l’“altro” che si offre a noi in modo incontrovertibile, come se i giochi fossero già fatti, come se tutto fosse definito e ordinato come doveva essere. Ecco perché, ad esempio, rispetto a una spiaggia reale, le “altre” di Luporini non sono delle varianti possibili in una casistica potenzialmente infinita, ma sono rivelazioni, visioni agghiacciate e per certi versi agghiaccianti del mondo che si manifestano in una maniera volta solo parzialmente alla ragione. Spiagge che nella realtà sono luogo di piacere, di spensieratezza di massa, e che nell’“altro” di Luporini diventano invece luogo di inumana atarassia, di sospensione assoluta, di geometrie che accentuano l’effetto di desolata solitudine, di felicità che viene implicitamente negata. Un capovolgimento di valori che non ci viene presentato come una perfetta equazione, ma attraverso elementi visivi che continuano a mantenere una loro ambiguità, un’impossibilità a essere tradotti integralmente in qualcosa di uguale. Nelle pitture di Luporini c’è sempre qualcosa che ci sfugge, un fattore d’indefinito e d’instabile in visioni che sono invece impeccabili per lucidità e compiutezza formale. È questo impedimento, questo stare davanti a un libro aperto che non ci dice tutto quello che vorremmo sapere, a coinvolgerci in un senso di frustrazione, come se le risposte ultime alle ragioni del tutto ci fossero negate, ma anche in una sottile suggestione, come se dall’indefinito e dai nostri limiti potesse derivare una malinconia perfino consolante. È un lirismo del disincanto, quasi una contraddizione in termini, che ci fa sentire piccoli e inermi davanti alla grandezza dei massimi sistemi, ma anche terribilmente umani in questa nostra congenita debolezza.
[Dal catalogo della mostra, Dal realismo esistenziale alla neometafisica, Spazio Oberdan, Milano, 2001]
Vittorio Sgarbi

In una recente mostra tenutasi in Palazzo Paolina a Viareggio, Roberto Tassi collocava criticamente l’opera di Sandro Luporini in una situazione neometafisica che ha le sue origini in una tradizione, tutta europea, dello sguardo fisso e lontanante, di luci sospese e come raggrumate in antiche calcine che mantengono il sapore terso e vagamente impenetrabile dell’affresco di memoria mediterranea anche laddove più calano a costruire immagini di quotidianità dispiegata. In questa aura di metafisica del quotidiano possono riconoscersi quelli che nella mostra viareggina Tassi ha raccolto come congeneri di una comune poetica dilatata fino a comprendere, oltre che le consonanze, anche le diversità. (…) Le stesse opere esposte in questa mostra modenese documentano analogie e distacchi facilissimi da rilevare per chi abbia notizia anche superficiale d’una vicenda italiana, ed europea, che può dirsi, almeno in parte, di ferma e segreta resistenza ad imperiosi dettati d’oltreoceano: a cominciare dalla vertigine informale per finire, attraverso le mitologie oggettualistiche della pop ancora filtranti in alcuni del gruppo viareggino, agli irrigidimenti nelle strutture primarie e concettuali dell’ultima avanguardia. Una resistenza, possiamo dirlo, segnata più da intime apprensioni e da lenti e meditati trasalimenti che non da gesti d’esplicita révolte. Fu questa la storia d’un ostinato rapporto con le “cose” e con gli oggetti: fantasmi d’una realtà incombente e trafitta dal dubbio.
Luporini ne fu partecipe, dapprima coi pittori del realismo esistenziale e, in seguito, con gli artisti che mi parve sentire allora in consonanza col battere di un “tempo dell’immagine” che si contrapponeva, in forse disperata dialettica, alle poetiche dello “spazio”, mantenendo aperto il presagio d’una ancor possibile durata dell’arte nei confronti dei verdetti di morte implacabilmente pronunciati. Oggi, quando la temperie del così detto postmoderno volge nel senso d’una recuperata libertà dell’artista e di un ambiguo ma non eludibile ritorno all’opera, si vede quali fondamenti e quale necessità avesse quella resistenza dell’individuo-artista gettato alle solitudini dell’eremita di massa, eppur rimasto irriducibile alla condizione di oggetto biologico. A questa, magari, non riusciva a sottrarre i “personaggi” delle sue opere, ove a dominare erano i silenzi straniti della luce e gli echi chiusi di spazi allucinati, di strutture improvvisamente impietrite. Molti dipinti di Luporini dicono di questa condizione, quasi di archeologia del presente, in cui il volo immoto di un gabbiano o la caduta sospesa di un paracadute sembrano patire la dannazione dell’acciaio e del vetrocemento, pur mantenendo una propria ambigua vibrazione, un nascosto allarme. (…)
[Dal catalogo della mostra, Adac, Modena, 1983]
Franco Solmi

[…] I quadri di quell’anno e dei successivi formano, senza incertezze e senza fratture, un insieme bellissimo di opere ricche di sottile tristezza, di atmosfera fantastica, di sogno, di poesia. Caduta la incorniciatura della finestra, la luce è subito cambiata, si è fatta abbacinante, diffusa, malinconica, senza indicazione di ora, e senza rapporto con le condizioni del paesaggio, tutto fuorché reale, una luce di memoria, completamente inventata, proiettata dal profondo. Si ha l’impressione, tanta è la novità, e la sicurezza stilistica, di queste opere, che Luporini abbia raggiunto una perfetta coincidenza tra il suo spirito e il suo atto pittorico, tra la sua ispirazione e le sue immagini. Il paesaggio è sempre lo stesso che si vedeva dalla finestra, formato da spiaggia, mare e cielo, ma ora protagonista. E scrivo paesaggio per convenzione, ma mi sembra che qui, in questi quadri, il mare non sia paesaggio; sia piuttosto la matrice dei fantasmi: il mare tanto a lungo guardato, contemplato, interrogato, che ha perso i suoi connotati, i colori, gli odori, i suoni, le luci di natura, ed è diventato come uno schermo, come un produttore di fantasie, di oggetti, di personaggi, anche di quelli che abitano la spiaggia.
Alcuni di questi quadri, una spiaggia con pochi ombrelloni chiusi come alberi invernali, i detriti sparsi, le onde fredde, il cielo uniforme, grigi, bianchi, celesti appena accennati, dilavatissimi verdi, come se tutto fosse cenere e brivido, sono di una intensa straziante poesia. A volte sulle acque appare un veliero, come se arrivasse da un racconto di Conrad, una fantasia d’avventura, ma anche una vertigine che ferisce la realtà; a volte è una squadra navale a punteggiare l’orizzonte e ad avvicinarsi tanto alla riva come se stesse per avere inizio un evento bellico. A volte la mescolanza tra sogno e realtà è massima, poiché la spiaggia è sostituita da un pavimento che una balaustra divide dal mare; ed è come se si fondessero scena teatrale e scena naturale. Un gruppo di persone passa lungo la linea sottile tra sabbia e riflusso; tra un uomo e una donna avviene un incontro. E poi: un ombrellone azzurro, una nuvola minacciosa, un tronco approdato sulla riva, una donna nuda, un cane bianco, sono, in altre opere, i soli protagonisti della scena.
Nell’insieme queste opere cantano, sommessamente, malinconicamente, la solitudine e l’abbandono nell’esistenza, l’accensione della fantasia, con una desolata essenzialità, come non capita di vedere oggi nella pittura che ci circonda.
[Dal catalogo della mostra, Adac, Bergamo, 1989]
Roberto Tassi

[…] Sandro Luporini: «È vero, come dici tu, che in pittura c’è un continuo arrovellarsi intorno alla solitudine esistenziale. Non sono d’accordo invece quando affermi che “c’è solo la certezza pessimista”. Per quello che riguarda un certo mio pessimismo penso che possa anche essere vero, ma il termine è riduttivo e totalizzante. In molti quadri io cerco (non so se ci riesco) un bloccaggio dell’immagine, una totale assenza del tempo e soprattutto una particolare luce che preannunci uno strano assurdo miracolo. Non credo si possa chiamare speranza, ma emozione e felicità dell’attesa. (…) Dentro quella che tu chiami “drastica spietatezza delle opere teatrali” mi pare che ci sia sempre, anche se non esplicitamente detto a parole, un senso di riscatto vitale. Non bisogna dimenticare che Gaber sul palcoscenico ha un energia straordinaria che supera spesso quello che scriviamo. Inoltre, mettere a nudo alcune falsità degli altri e anche nostre, non è pessimismo ma amore per la vita come dovrebbe essere.»
[Dal catalogo della mostra “La tensione dello sguardo”, Lucca 2001]
Antonella Serafini

Sandro Luporini io lo considero un metafìsico perché, tutto sommato, metafìsico è. Viene dalla cultura milanese di un periodo in cui il realismo aveva già fatto quasi la sua parte, quando la scapigliatura meneghina aveva non soltanto riempito tutte le pagine dei giornali culturali, ma anche raccontato situazioni che allora sembravano impossibili, perché la Sarfatti, come si sa, aveva fatto scuola. Ma la pittura di Sandro è l’arte di un personaggio da vedere. Qualcuno dirà: le abbiamo già viste queste cose. Ma tutte le cose del mondo quasi sempre si sono già viste. L’importante è come ven­gono riviste e ricostruite. Questi grandi alberi, che vi sono in alcuni suoi quadri, tra­smettono una particolare emozione, così anche gli ombrelloni chiusi. Ombrelloni che a loro volta sembrano alberi, spiagge che sembrano deserte, ma che deserte non sono e che non assomigliano alle spiagge come siamo abituati a vederle noi. Quelle di Luporini sono spiagge che parlano un linguaggio poetico e che ci portano in un’atmosfera intima di osservazione. Siamo di fronte a un pittore molto significativo e molto interessante, a un pittore vero, di grande impatto emotivo. Un Sandro Luporini artista e anche amico, un Sandro Luporini che incontravo nella Milano degli anni Sessanta. Un Sandro Luporini che mi ricorda gli anni di una via Brera ormai cambiata. E anche lui è cambiato nella sua pittura. Ho visto e vedo questa sua evoluzione che c’è, che mi sorprende e mi affascina. Nei suoi quadri di oggi non si trovano le burrasche esistenziali degli anni Sessanta. Il paesaggio ricorrente è una spiaggia quasi sempre deserta, lontana dallo stravolgi­mento delle passioni, rappresentata dalla fotografia pensata e poetica di singoli istanti. La sua pittura oscilla tra il realismo e l’esistenzialismo. Luporini è un poeta vero la cui metafisica, dopo Carrà e de Chirico, ne fa un attento osservatore di luci e colori da cui emergono figure ora minuscole, ora in primo piano, che sembrano immobili e pure in movimento, cristallizzate in una fisicità che continuamente rifuggono. […]
[dall’intervista televisiva del 1998, riveduta e completata nel marzo 2001]
Everardo Dalla Noce

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